Vieni vieni, Amir! Vieni a vedere! Ci sono riuscita!
Uma era entusiasta del risultato e saltellava di gioia intorno al tavolo dove
aveva radunato l’accozzaglia di aggeggi che aveva scovato in cantina. C’erano tre
schermi piatti come i quadri antichi, ma era riuscita a farne funzionare uno
solo: quello pesantissimo, di vetro con la superficie un po’ bombata.
Collegarlo all’enorme scatolone di metallo che usava suo trisnonno,
quando ancora non si indossavano i witmaster, non era stato difficile. Più complicato
era stato immaginare quali dispositivi collegare allo scatolone perché questo
potesse funzionare e come questi andavano connessi. Una volta tutto funzionava
con fili ingarbugliati, inclusa l’alimentazione che allora era solo elettrica.
Gli studi che appassionavano Uma le erano stati molto utili
per capire come far ripartire quella macchina dall’aspetto rozzo e ingombrante.
Stava specializzandosi con un master sulla storia dell’immagine e lo studio di quelli
che un tempo erano “i computer”, grossolani e lontani progenitori degli attuali
witmaster, faceva parte del programma di studi, anche se ormai perdere tempo
con una tecnologia così arretrata aveva poco senso.
Non sapeva esattamente cosa cercava, né cosa avrebbe
trovato, ma ora gli occhi le brillavano di
soddisfazione, mentre esultava continuando a chiamare il fratello.
Riuscire a fare ripartire il computer era stato un vero
colpo di fortuna. Non bastava accenderlo, così aveva provato a inserire nei
vari connettori interni ed esterni tutto quello che aveva trovato in cantina e
che poteva adattarsi. Alla fine, dopo avere infilato un piccolo aggeggio in una
fessura frontale, lo schermo si era animato e dopo un tempo che le era parso
lunghissimo, erano comparse delle figure bidimensionali. Su un rettangolo stava
scritto “Images”. Aveva imparato all’università come si usava l’interfaccia di
comando che al tempo del suo trisnonno chiamavano col curiosissimo termine
di “mouse”.
Ora era lì, piatta come nei libri antichi, come nelle
immagini che studiava alla George Eastman House, come le pitture nei musei. Non
avrebbe mai potuto immaginare di poter vedere la figura di quelli che, con
tutta probabilità, erano i trisnonni, giovanissimi, davanti alla Tour Eiffel,
proprio in quei giorni nuovamente riaperta al pubblico dopo imponenti restauri.
Com’era elegante a quei tempi, senza le strutture di consolidamento che era
stato necessario aggiungere.
Bidimensionale e sgranata… con quei colori poi… il
visualizzatore aveva evidentemente perso la capacità di generare i toni blu e
bisognava immaginarsi le tinte che probabilmente si vedevano in origine.
Guarda Amir: ho trovato l’immagine dei trisnonni! Era
eccitatissima. Sapeva che il trisnonno avrebbe chiamato “fotografia” quella
figura, lo aveva studiato. Ma con suo fratello evitò di usare quel termine
perché per lui la fotografia era una cosa completamente diversa e non lo
avrebbe capito.
Uma sapeva invece che si chiamavano fotografie tutte le
figure generate dalla luce attraverso i più diversi procedimenti che la
tecnologia aveva elaborato nel corso di quasi tre secoli.
Uma conosceva le rarissime reliquie dei primi anni della
storia dell’immagine fotografica: aveva persino avuto il privilegio emozionante di poterne
tenere, tra le mani guantate, un esemplare! Allora non esisteva nemmeno la
fotografia a colori e le tinte venivano applicate a mano da abilissimi
artigiani. Immagini del passato ce n’erano in quantità, ma quelle che suo trisnonno chiamava fotografie digitali erano rarissime e si erano salvate solo
quelle a cui si era dato un nuovo supporto e che erano state trasformate per salvarle.
A quei tempi, i dati erano conservati su labili memorie elettromagnetiche
e tutte le “fotografie digitali” di quell’epoca erano mantenute in modo “diffuso”
senza sapere dove realmente stavano, nell’infrastruttura tecnologica denominata
“rete”. Poi era arrivata la CGC, connessione a consapevolezza globale, che non
aveva più bisogno di cavi o rudimentali trasmissioni elettromagnetiche. L’applicazione
delle nuove conoscenze di fisica quantistica aveva cambiato la storia dell’umanità
sulla Terra.
Per un po’ quello che si chiamava “web” resistette nella
pigra consuetudine degli anziani, progressivamente dimenticato fino al momento
in cui qualcuno decise di spegnerne i gangli vitali, condannandolo alla
scomparsa. I documenti fondamentali della cultura umana furono riconvertiti e
passati alle nuove strutture. Miliardi e miliardi di immagini che avevano senso
solo per chi le aveva prodotte, andarono persi per sempre. Costava troppo
riconvertirli in quello che ora È fotografia, cioè holofeel persistente da
poter maneggiare e gestire semplicemente con l’evocazione. Per qualche
esemplare di particolare pregio era stata effettuata la riconversione, così
come un secolo prima alcune delle antiche pellicole cinematografiche in bianco
e nero erano state trasformate in exivisuals. Ma l’economia ha le sue leggi e
la memoria visuale di una generazione e mezza, andò quasi interamente dissolta.
Riuscire a costruirsi un generatore elettrico per fare
rivivere il computer del trisnonno era stata un’impresa di cui Uma andava
orgogliosa. La sua pazienza e l’aiuto degli amici collezionisti erano stati
determinanti per raggiungere il risultato finale che ora stava davanti a lei e sotto
lo sguardo stupefatto del fratello.
Amir alzò la mano nel tentativo di ruotare la figura e Uma
sorrise del suo gesto spontaneo: “No. Non funziona così: non è una fotografia… cioè È
una fotografia... ma di inizio secolo. Non puoi toccarla”.
Amir la guardò stupefatto: stentava a credere che non si potesse adoperare una
fotografia e girarsela come ti pare tra le mani. L’immagine aveva colori
totalmente inattendibili e margini grumosi come se fosse stata sparata a
pallini di luce. Non solo la fotografia era piatta, ma non aveva alcuna materialità
perché era evidente che si trattava semplicemente di luci colorate. Insomma, Non
era liscia e soprattutto non era presente. Una fotografia, impronta ed
espressione stessa di presenza… era assente! Incredibile.
Stettero insieme, rapiti per un tempo indefinito, a
contemplare i due volti proiettati sul vetro, guardandoli negli occhi: ci
pensi? I nostri trisnonni!
Poi il generatore si arrestò e le luci colorate istantaneamente si rappresero
in un punto luminoso al centro dello schermo di vetro.
Amir si voltò verso Uma con espressione decisamente
contrariata: “dove sono finiti i trisnonni?”.
Lì. Lì nello scatolone, da qualche parte, ci doveva essere una memoria magnetica
o qualcosa del genere che si usava una volta. Lì c’erano le istruzioni per
ricostruire l’effimero fantasma che avevano ammirato fino ad un attimo prima.
Un file binario… binario! Che sciocchezza, pensò tra sé Uma: uno e zero, quando
la realtà è infinita e le dimensioni sono molte più delle tre che conoscevano i
trisnonni!
Ah se i trisnonni avessero avuto fotocamere holofeel a registrazione
diacronica!
Riadattare alla visione umana quelle rudimentali figure “digitali”
era probabilmente una battaglia persa ancora prima di iniziare.
La fotografia, cioè la tecnologia holofeel sarebbe invece
durata per sempre.
O no? Uma avrebbe ancora avuto trisnipoti? sarebbero tutti
dovuti andare via da questa Terra ormai esausta e consumata dai veleni,
abbandonando tra i suoi rottami anche uno sterminato accumulo di immagini che
ormai non testimoniavano più nulla per nessuno?
Uma non lo sapeva. Aprì il cassetto dove teneva la fotografia della nonna. Prese in mano l'unica fotografia sopravvissuta tra le memorie della sua famiglia. Era un foglio di carta lucida, come lucidi erano adesso gli occhi di Uma, che scrutava il dolce sguardo della nonna.
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RispondiEliminaSei riuscito anche questa volta a commuoverti mentre lo scrivevi e a commuovermi perché mi sono vista nella foto di quella nonna :*)
RispondiEliminaBello, complimenti!
RispondiEliminaGrazie per l'apprezzamento :-)
Eliminale preveggenza...
RispondiEliminaGrazie :-)
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